Plato's Myths and the Mystery Tradition

I Miti di Platone e la Tradizione dei Misteri

W. T. S. Thackara

Documento letto alla Mythology Conference tenutasi a Santa Monica, California, il 14 e 15 febbraio 1987.

Da Sunrise magazine, dicembre 1988/gennaio 1989; copyright © 1988 Theosophical University Press. Traduzione italiana di Nicola Fiore © 2016. Quest'edizione può essere scaricata gratuitamente per uso personale. Tranne che per qualche breve estratto, nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa per uso commerciale o per altro uso senza chiedere il permesso alla Theosophical University Press.


[Le citazioni dai Dialoghi, tranne che abbiano una diversa connotazione, sono state tradotte in Inglese da Benjamin Jowett, e qui inserite come note numerate da 1 a 12 — Impaginazione di Stephanus.]

Fin dall'origine del razionalismo greco, e probabilmente da molto tempo prima, i miti avevano ricevuto cattive critiche. Nei primi del 5° secolo a. C., Senofane sfidò apertamente l'ortodossia Olimpica criticando Omero ed Esiodo di aver "attribuito agli dèi tutte le cose che sono un obbrobrio e una disgrazia tra i mortali, furti, adulteri e inganni reciproci."[1] Erodoto accusò "Omero e qualche altro poeta più antico" d'invenzione (Storia 2, 23); mentre Socrate, pur sostenendo che i miti non sono del tutto privi di verità, era dell'idea di censurare i "creatori di miti" nel suo Stato ideale, inclusi Omero ed Esiodo. Le loro storie degli "empi litigi" degli dèi, omicidi e lesioni, non ritraggono fedelmente la realtà e dovrebbero, se è possibile, essere "sepolti nel silenzio." (Repubblica 377-78)

Tuttavia, non sempre la parola mito è stata associata a una finzione. Nell'uso originale greco, mythos indicava qualcosa detta oralmente, cioè una parola, un linguaggio, o una storia. Poco tempo dopo Pindaro, venne a significare un racconto poetico di avvenimenti prima dell'alba della storia, mentre un termine simile, logos, che pure significava "parola," indicava un racconto storico. Nel tempo, mito acquisì le connotazioni negative della fantasia e di un puerile nonsenso, mentre logos venne a significare ragione e un'autentica narrazione storica. Le parole furono probabilmente unite, generando il soggetto scolastico chiamato mitologia: "un discorso autentico sugli antichi racconti."

Da un simile studio, comunque, possiamo imparare che le immagini fittizie che rivestono i miti spesso oscurano la loro verità inerente. Ma cercare il logos nei miti, la verità nel mito, non è una cosa nuova. I Neoplatonici consideravano i miti come allegorie storiche e mistiche, i cui significati interni erano rivelati attraverso la disciplina filosofica. Nella sua biografia di Proclo, Marino scrisse che il suo insegnante ottenne "quelle visioni veramente benedette della Realtà" con cui egli

imparò con facilità tutta la teologia greca e non greca e anche quella verità che era stata nascosta sotto forma di mito; le spiegò in modo entusiastico a tutti quelli che volevano ed erano capaci di comprendere, e le portò in sintonia.[2]

Il suggerimento di Proclo di una teosofia esoterica che unificasse i vari miti e sistemi religiosi echeggia un passaggio da Il Politico di Platone. Nel personaggio principale del Dialogo, un "filosofo divino" chiamato lo Straniero di Elea, afferma che "tutte queste storie, e altre diecimila che sono ancora più mirabili, hanno un'origine comune." Egli attribuisce questa fonte agli istruttori dell'umanità, che nell'Età d'Oro trasmisero la prima rivelazione degli inizi cosmici e umani, come pure gli "insegnamenti del Creatore e del Padre" sulla giusta condotta di vita (269-74); Tuttavia, anche con questo chiaro accenno che le vecchie leggende fossero depositarie di verità spirituali, nei Dialoghi troviamo poche spiegazioni. Il Socrate di Platone, inoltre, è spesso critico riguardo alle storie, come pure delle interpretazioni dei suoi contemporanei.[3]

Platone adduce un numero di ragioni per questo, specialmente ne Il Politico (268-74) e il Crizia (109-10). Egli indica che nel trascorrere delle ere i miti tradizionali si sono considerevolmente corrosi: memoria imperfetta, intrusioni estranee, cambi del significato delle parole e del linguaggio, le cose prese alla lettera, cattive interpretazioni, e l'effetto generale corrosivo della fantasia umana, avevano talmente distorto le vecchie storie, che ormai non corrispondevano più al loro proposito originario. Avevano perduto molto del loro potere di ravvivare la memoria della nostra origine divina e delle nostre istruzioni sacre. Per Platone, i veri miti sono narrazioni della nostra storia spirituale. Come tutte le storie, sacre o laiche, i miti vanno intesi come promemoria e, come Plotino insegnò in seguito, la memoria è per quelli che hanno dimenticato, che hanno smarrito la loro visione interiore e non vedono più. (Enneadi. IV. fogli 3.25, IV.4.7)

Oltre a evidenziare la loro sbrindellata condizione, Platone vorrebbe che noi comprendessimo che l'interpretazione di un mito richiede un'intuizione appropriata. Questo, a sua volta, implica delle priorità. Nel Fedro, ad esempio, Socrate discute alcuni problemi che sorgono dalle spiegazioni "razionali" dei miti, cioè, le interpretazioni che riducono i miti a eventi puramente storici e a realtà fisiche. Come spiegare i centauri, le chimere, le gorgoni, e altre "nature inconcepibili e prodigiose?" È una sorta di "filosofia cruda" che cerca di elaborare significati non plausibili metafisicamente, perché questi richiedono lavoro, ingegnosità, e un sacco di tempo.

Ora io non ho tempo libero per queste indagini. Volete sapere perché? Devo innanzitutto conoscere me stesso, come dice l'iscrizione Delfica . . . Sono io un mostro complicato e gonfio di passione più del serpente Tifone, o una creatura gentile e semplice, alla quale la Natura ha dato un destino al tempo stesso divino e  moderato? (230a)

Le critiche di Platone di sicuro non sono dirette contro tutti i miti. Le sue prime obiezioni sono caricature fuorvianti e sterili interpretazioni, poiché banalizzano i miti, svuotandoli del loro contenuto arcano. Socrate, di fatto, riammette la poesia nel suo Stato ideale, inclusa quella di Omero ed Esiodo, ma solo gli "inni agli dèi e le lodi di uomini famosi.(La Repubblica, 607a) Riguardo i significati nascosti dei miti (hyponoia), dovrebbero essere scoperti privatamente e presumibilmente solo dopo un appropriato allenamento filosofico, quando l'intuizione è risvegliata. (La Repubblica, 378)

Platone intendeva chiaramente rinnovare e incrementare le verità originariamente espresse nelle antiche storie; ma le sue ragioni di creare nuovi miti, che velano e altrettanto rivelano, sono raramente spiegati in maniera soddisfacente nei moderni libri di testo. Forse i motivi più impellenti nascono dalla sua associazione alla tradizione dei Misteri, il cuore esoterico della religione greca.[4]

Pochi, oggi, realizzano la solennità con cui i riti interni e le dottrine dei Misteri furono sostenuti dagli antichi ateniesi, Né la nostra cultura, affamata d'informazioni, apprezza pienamente le ragioni della loro segretezza. Sebbene nessuno contesti che certi tipi di conoscenza possano essere, in mani sbagliate, un pericolo di vita, oggi la maggior parte dubiterebbe che la conoscenza puramente religiosa o filosofica presenti qualche serio pericolo. Gli adepti dei Misteri la pensavano altrimenti, specie per quel che riguarda gli insegnamenti sulla coscienza e la natura interiore dell'uomo. La segretezza era praticata non a scopi egoistici di accumulare potere, ma principalmente per proteggere l'adepto impreparato da possibili danni psicologici e fisici — e da altre offese.

Ai tempi di Platone, comunque, molte delle scuole Misteriche conosciute erano notevolmente degenerate. Lo stesso Platone non era del tutto soddisfatto di quelle iniziazioni Eleusine che non imponevano la lunga disciplina filosofica richiesta per ottenere l'intuizione nelle realtà primarie (La Repubblica 378a); e denigrava particolarmente le frenesie popolari Bacchiche o Dionisiache, che conferivano, nelle sue parole, "un'immortalità di ubriachezza [come] la più alta ricompensa della virtù." (La Repubblica 363d)  Nondimeno, a Eleusi era rimasta sufficiente luce interiore da attrarre qualcuna delle menti più raffinate del tempo. Ancora tre secoli dopo Platone, lo Stoico romano Cicerone, scrisse:

Mi sembra che Atene abbia prodotto e aggiunto alla nostra vita gran parte di ciò che è eccellente e divino, ma niente è meglio di quei Misteri con cui ci siamo formati e plasmati da un rude stato selvaggio dell'umanità; e, in verità, nei Misteri percepiamo i veri principi di vita, e impariamo non solo a vivere felicemente, ma a morire con uno scopo più giusto. (De Legibus II. 14)

Platone era indiscutibilmente un iniziato. I suoi scritti riflettono ampiamente i propositi e lo scopo dei Misteri, e potrebbero essere stati un tentativo di restaurare la loro originaria purezza filosofica. Nel Fedone, Socrate dice che i veri iniziati sono i veri filosofi, "da annoverare tra coloro ai quali ho dedicato tutti gli sforzi di una vita." (69d, Hackforth)

Possiamo solo ipotizzare fino a che punto Platone si sia ispirato alle fonti Orfiche, Eleusine, Pitagoriche, e altre, per non parlare della propria visione interiore. Come per tutti gli insegnanti illuminati spiritualmente, uno dei problemi più difficili per Platone era come trasmettere quella visone — la grande luce del Bene — che i Misteri conferiscono; come risvegliare un mondo scettico e beffardo; e, altrettanto importante, come frenare quelli che, credendoci fino in fondo, vorrebbero, poco saggiamente e impreparati, accelerare i tempi. Perché non solo c'erano i Misteri indicibili, che il linguaggio umano non può esprimere (l'arrhēta' ), c'erano anche gli insegnamenti proibiti sui quali era illecito parlare apertamente (aporrhēta).[5] La pena per la profanazione dei Misteri, cioè della divulgazione o abuso degli insegnamenti segreti, era la morte. In origine, significava una sorta di morte dell'anima: essere tagliato fuori dal naturale influsso della "sacra tradizione che dona la vita," che non poteva più essere affidata al candidato.[6] Ai tempi di Platone, comunque, la pena era interpretata letteralmente — un altro segno di degenerazione — e la profanazione era diventata un crimine capitale.[7]

Era permesso, comunque, alludere a certi insegnamenti sotto il velo del simbolismo, ed è noto che i miti erano il linguaggio pubblico dei Misteri, i cui significati interiori erano rivelati durante l'iniziazione. Così Platone, ben consapevole dei suoi obblighi filosofici e pubblici, scrisse avendo cura di non infrangere le antiche regole. Quando introduce gli insegnamenti sacri, egli li riferisce solo mediante cenni o allusioni — o tramite il mito.

Cercare di proporre l'inesprimibile ed evitare la profanazione dei Misteri non era il solo motivo di Platone per usare i miti. Come abbiamo notato precedentemente, la loro funzione primaria è di risvegliare la memoria, che per Platone ha il significato di risvegliare la conoscenza dell'anima, un'anamnesis o reminiscenza delle verità oltre la portata dell'intelletto (Menone 81). Nei Dialoghi, i miti ci raccontano lo scopo della filosofia, cosa che non può fare un linguaggio scientifico, e sono inseparabilmente vincolati allo scopo della filosofia, che è l'educazione dell'anima.[8] I Dialoghi indicano il programma scolastico e ne formano una parte.

I Dialoghi di Platone, come un mito tenuto in considerazione, possono essere letti a parecchi livelli e contengono importanti temi secondari, impliciti nelle impostazioni, i personaggi e gli eventi. I suoi insegnamenti sono raramente esposti didatticamente, tutti pronunciati dalla A alla Z — di sicuro mai dogmaticamente come una sorta di catechismo. Piuttosto, sono espressi come possibilità o "come storie" (Timeo, 29c), presentandosi amabilmente nel naturale scorrere della conversazione, senza pretese o forzature, a volte quasi incidentalmente, suggestivamente. Questo ci aiuta a rimanere fluidi nel pensiero, dandoci il tempo e lo spazio per riflettere, per trasformare le idee e valutarle da differenti angolazioni e cambiamenti di prospettive. Questo metodo forma una parte della dialettica di Platone, rendendoci capaci di "vedere globalmente le cose" (synopticos) come un insieme unitario — o, per dirlo metafisicamente, di vedere l'Uno nei molti, e i molti nell'Uno.[9]

Platone indica anche che le affermazioni definitive sono impossibili. I concetti devono essere accettati provvisoriamente per poterli esaminare, mai come l'ultima parola sulla verità. La nostra missione è di estrarre dal nostro intelletto, non di immettere in noi a tutto spiano i pensieri di un'altra persona. Socrate e Platone non sono mercanti di conoscenza come i Sofisti, ma come levatrici filosofiche ci aiutano a dare la nascita alla nostra progenie spirituale e intellettuale.[10]

Nei primi Dialoghi Socrate c'impegna a chiedere della felicità: cos'è realmente? E chi è il vero uomo (o donna) felice? Qui i miti sono marcatamente assenti; la forma letteraria è principalmente un esame incrociato. L'interrogativo di Socrate è mirato a portarci in uno stato di dubbio, uno scetticismo salutare sulla profondità di comprendere argomenti importanti. Come il primo stadio della disciplina iniziatica, chiamata katharsis ("pulizia"), questi Dialoghi ci sono d'aiuto a purificare la vita del nostro pensiero dalle false idee e attitudini egoistiche, a stimolare il nostro amore per la verità, e a rivelare il sentiero della virtù che conduce alla saggezza.

Incontriamo uno dei primi miti di Platone, e una lezione sull'uso del mito, nel Protagora (320-2). È una bella storia su Prometeo e suo fratello Epimeteo, che insieme modellano l'uomo come un essere fisico e pensante. Ma il racconto è rielaborato da Protagora il Sofista, non da Socrate, proprio all'inizio della discussione, una posizione mai occupata dai miti Socratici. I miti appaiono sia al centro che alla fine di un dialogo, solo dopo che siamo stati sufficientemente preparati dalla dialettica e dagli interrogativi personali — proprio come i miti più tecnici di Platone vengono nei Dialoghi successivi.

Ma il mito non riesce a supportare il proposito di Protagora, che è di provare che la virtù può essere insegnata. Il suo appello è all'autorità tradizionale: il mito dovrebbe essere accettato alla lettera, la sua "verità" assiomaticamente. Naturalmente Socrate non è affatto convinto, perché l'assioma non è stato esaminato, e tantomeno provato. Nella ricerca della verità la supposizione dev'essere sempre messa in dubbio e mai data per garantita (348). Il mito, comunque, non è privo di valore — difficilmente Platone ripeterebbe la colpa dei poeti più antichi — perché semina idee importanti sviluppate più esaurientemente nei Dialoghi posteriori, soprattutto nel mito de Il Politico sugli inizi e i rinnovamenti ciclici. (269-74)

In contrasto con le storie sugli inizi, i miti di Socrate riguardano particolarmente la fine e le ultime cose — sia nel senso del fato dell'uomo dopo la morte, che della fioritura della conoscenza filosofica. Un interprete, Paul Friedländer, plausibilmente suggestionato dai Dialoghi iniziali e centrali di Platone, ricostruisce un Mito di Socrate: una versione greca del Mito del Salvatore Martirizzato.[11] I miti Socratici all'interno di questo mito più esteso può essere visto come una premonizione di Socrate, che lo preparava al suo calvario iniziatico finale, cioè il suo processo Ateniese, l'esecuzione, e la "resurrezione" suprema come uomo giusto nella vita immortale con gli dèi. Su un altro livello, ancora inserito nel contesto dell'iniziazione, i miti Socratici descrivono l'ascesa dell'anima alla vera conoscenza, la sua comunione con le realtà divine, e il suo ritorno per illuminare l'umanità. L'ordine dei Dialoghi è importante, come i miti contenuti, perché ciascuno rappresenta un tipo d'iniziazione, rivelando progressivamente un nuovo insegnamento e rendendo chiaro quello di prima.

Nel Gorgia, Socrate riassume il suo tema della felicità, affermando che è proprio l'uomo giusto, non quello ingiusto, ad essere più felice. Dopo molti pro e contro, la discussione va inevitabilmente avanti considerando la possibilità dell'immortalità dell'anima, nel cui caso la morte, come Socrate afferma, non impedisce all'uomo di affrontare le conseguenze delle sue azioni — comprese le ricompense.[12] Riconoscendo che non è possibile né la prova scientifica né la sua confutazione, Socrate si appella alla nostra intuizione con un mito: una storia che egli sa che molti riterranno una favola, ma che lui stesso considera un vero racconto, perché intende "parlare della verità:" (523a)

E così, nel linguaggio dei miti, noi discendiamo alla Corte del Giudizio nell' inferno per apprendere il fato delle anime. Lì distinguiamo due strade, una che porta in alto alle Isole dei Beati, "dove chi ha vissuto la sua vita secondo giustizia e in santità vi dimorerà in perfetta felicità fuori dalla portata del male."; l'altra porta al Tartaro, la "casa della vendetta e della punizione" e della purificazione. Comunque, poco è detto delle altre regioni del cosmo, perché il mito di Gorgia è innanzitutto un'esperienza infernale.

Anche il Fedone (107-14) comincia con una scena del giudizio ma si estende sul fato del giusto che ascende dalle "cavità" infernali della Terra sferica — il nostro mondo è una di queste caverne — fino alla superficie della "vera Terra."

Se ogni uomo . . . potesse avere le ali di un uccello e arrivare sulla cima, allora, come un pesce che sporge la testa fuori dall'acqua e vede questo mondo, vedrebbe un mondo oltre; e se la natura dell'uomo potesse sostenerne la vista, egli riconoscerebbe che questo mondo era il luogo del vero cielo e della vera luce e della vera terra.[13] (109 c-e)

Qui c'è un preludio alla famosa Parabola della Caverna nel Libro 7 de La Repubblica, in cui Socrate descrive l'ascesa "ripida e faticosa" dall'ignoranza alla vera conoscenza. Per tutto, egli ha insistito che l'allenamento nella virtù deve precedere questi Misteri Maggiori. Il filosofo deve purificarsi dal pensare sbagliato e dal suo interesse personale se vuole liberarsi con successo delle catene delle ombrose illusioni e superare la barriera che lo separa dalla luce solare delle realtà divine. Anche allora il suo compito non è finito, perché nel libro posteriore de La Repubblica apprendiamo di una disciplina superiore e, per deduzione, di una verità più grande. Ad esempio, nel Libro 10, il mito di Er allarga il nostro orizzonte manifestando la sfera del cosmo, i cui pianeti e stelle ruotano in solenne processione sul Fuso della Necessità. Apprendiamo anche delle rivoluzioni delle anime umane che ritornano alla terra dopo le loro purificazioni e ricompense post-mortem, una parte del loro viaggio complessivo. Comunque, è oltre l'universo del cambiamento e del divenire che il filosofo deve trovare il Piano della Verità.

Una tale conoscenza è difficile da ottenere, ugualmente difficile da descrivere, e nel Fedro, Socrate raggiunge l'apice della sua ispirazione. Qui il suo filosofo ideale alla fine conquista la bestia che è in lui, il "mostro complesso e gonfio di passione più del serpente Tifone [dalle cento teste]." Il destriero indisciplinato della sua natura inferiore è stato domato e sottomesso da Nous, il suo Sé divino. Ora, è uno degli immortali e raggiunge la "fine della sua corsa." In un carro trasportato dai destrieri alati della sua anima purificata, e rafforzato dall'amore, egli "sta all'esterno del cielo . . . e vede le cose oltre." Di questo mondo super-cosmico al di là dei cieli, Socrate si chiede: "Quale poeta terreno l'ha cantato o lo canterà degnamente?" (247d)

Sebbene la visione trascendentale della verità descritta qui e altrove nei Dialoghi sia la filosofia centrale di Platone, non è l'ultimo obiettivo del filosofo. Socrate ci ricorda, ne La Repubblica (519c), che il nostro mondo non dev'essere trascurato. Era intento del Legislatore che tutti i cittadini nello Stato dovevano essere felici, e la saggezza divina è di infondere luce, ragione, e giustizia, attraverso l'intero cosmo, non solo a pochi asceti selezionati.[14] Vero, i filosofi devono "morire" per rinascere spiritualmente — svincolarsi dagli attaccamenti mondani in modo che possano ascendere al Piano della Verità. Ma, come il soggiorno post-mortem dell'anima tra le vite terrene, il viaggio iniziatico del filosofo nei Misteri Maggiori non è che un distacco temporaneo dai doveri qui sulla terra. La Necessità (ananke) lo spinge a ritornare. E così fa qualcosa di diverso.

L'amore per la saggezza è essenziale alla ricerca del filosofo. È una verità cardinale nel messaggio di Platone — e un tema mirabilmente allegorizzato nel linguaggio di Diotima nel Simposio (201c-13a). Tuttavia, vi è un potere più fondamentale che organizza ed energizza la vita del filosofo. Questo è il potere dell'amore divino, quella compassione eccelsa che muove i grandi esseri dell'umanità a condividere non solo la loro visione unica del sole del Bene, ma a donarsi completamente, e spesso in incognito, al benessere universale — veramente "un destino divino ed elevato." Ma non dobbiamo credere che l'altruismo cominci solo dopo che è stata ottenuta la saggezza. Dal punto di vista di Platone, niente può esserci oltre la verità — una verità esemplificata nella persona di Socrate. Qui è un benefattore calorosamente umano che non pretende[15] per sé alcuna saggezza, ma solo "un piccolo corpo di conoscenza [sulla] natura dell'amore. Per Socrate, la filosofia è la "tendenza dell'anima"; è un sentiero di amorosa sollecitudine per gli altri — un sentiero che comincia ora, all'inizio del percorso, non alla fine.

Sicuramente Platone apre deliberatamente La Repubblica con una breve conversazione tra Socrate e Cefalo, il suo amico più anziano, sul soggetto della morte. La ragione di Cefalo per la vita è puramente egoistica: vuole assicurarsi che, nel caso ci sia un'altra vita, gli saranno risparmiate le sofferenze dell'inferno. Cita anche una delle odi di Pindaro a sostegno di quest'argomento. In contrapposizione alla storia di Cefalo, Platone termina La Repubblica con la visione di Er. Per completare la sua disamina della giustizia, Socrate descrive il guerriero spirituale che è ucciso in battaglia e ritorna in vita, fisicamente risorto per trasmettere il messaggio di tutti i salvatori: che noi siamo esseri immortali e, come umani pensanti e liberi di scegliere, il destino è nelle nostre mani. Ma il mito — e in verità i Dialoghi presi nel loro insieme — contiene un messaggio di gran lunga più sublime. Nel raccontare ancora la storia del vero filosofo, Platone ci ha dato un potente promemoria dell'ideale più nobile mai concepito: il vero filantropo che rinuncia alla vita degli dèi per aiutare l'umanità ad elevarsi.


[1] John Burnet, Early Greek Philosophy, 4.a edizione, Adam & Charles Black, Londra, 1948, p. 119,

[2] Cap. XXII, in The Philosophy of Proclus, Laurence J. Rosan, tr., Cosmos, New York 1949, p. 25.

[3] Ione, Hippias Minore, e Fedro 229.

[4] Dobbiamo molto ad H. P. Blavatsky per aver dimostrato con quanta forza i Misteri abbiano influenzato Platone e la configurazione delle sue esposizioni.

[5] Fedro 246a; Timeo 28e; Il Sofista 242d-3b; Il Politico 277c; Lettera VII 341-5; e anche "The Gnosis of Plato," Sunrise, agosto/settembre 1986, p. 206.

[6] H. P. Blavatsky, La Dottrina Segreta 1: xxxv, ed. del 1888; G. de Purucker, Fundamentals of the Esoteric Philosophy, 2.a ed., TUP, Pasadena, 1979, pp. 254-5, 557.

[7] George Mylonas, Eleusis and the Eleusinian Mysteries, Princeton University Press, Princeton, 1961, pp. 224-9:

[8] J. A. Stewart, The Myths of Plato, Centaur Press, Londra, 1960, p. 222.

[9] La Repubblica 537c, 511b, 532-3; Fedro 266c; Filebo 16c e Parmenide (passim).

[10] Vedi "Socrates: Midwife to Our Souls," Sunrise, ottobre 1998 – marzo 1989.

[11] Paul Friedländer, Plato: An Introduction, Harper & Row, 1958, pp. 87, 172-5; Consultare anche la Lettera II di Platone 314c, che parla di Socrate come "giovanile e idealizzato."

[12] Fedone 107c, La Repubblica 613a, e Leggi 728b.

[13] La presenza dei globi e dei piani superiori è un tema comune nelle tradizioni mitologiche. Confrontate, ad esempio, la geografia "mitica" dei dvīpa hindu, dei keshvar Zoroastriani, del Mshunia Kushta Mandeano, dei sefirot cabalisitici, e delle catene planetarie nella Teosofia di oggi.

[14] Timeo 29c-31 e Leggi 903c.

[15] Teagete 128b (in Plato, di Friedländer), Plato 2: The Dialogues, p. 151); anche Lisia 204b, Il Simposio 177d.


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